Prima
ancora di leggere il testo, primo ancora di definirne il mio pensiero leggevo
commenti sulla canzone Tempest. Per molti Tempest è una canzone troppo lunga e
ripetitiva. Il mio commento è sempre stato diverso. Se Tempest ha un difetto è
quella di essere forse troppo corta, lo
stesso dicasi per Tin Angel ad esempio. Qualcuno sorriderà ma provi ad
immaginare Tin Angel con un intermezzo di armonica nel penultimo verso e uno
nel finale come avveniva nella struttura delle canzoni folk che componeva un
tempo. Sfido qualcuno a dirmi che la canzone non sarebbe stata migliore. Altre
invece sono lunghe a sufficienza.
In questo
caso il commento di Marcus mi sembra il più appropriato “Giunti al sesto o
settimo minuto (ne dura quattordici) si può pensare di uscire a prendere una
boccata d’aria o di farsi un caffè, tanto al ritorno la canzone non sarà ancora
finita, ma se dopo la metà si comincia ad ascoltarla attentamente ci si accorge
che qualcosa è successo, che quello che sembrava il racconto di un naufragio
avvenuto cent’anni fa in realtà è una battaglia senza quartiere che si sta
svolgendo adesso, qui ed ora, per il possesso delle anime di ogni personaggio
menzionato nella canzone, e che il culmine della narrazione, il suo momento più
intenso, è raggiunto alla terza comparsa della sentinella dormiente, il
“watchman” che sta sognando che il Titanic sta affondando, e nel sogno vorrebbe
dirlo a qualcuno (“He dreamed the Titanic was sinking, and he tried to tell
someone”).
In realtà
dire che Tempest è troppo lunga è come dire che “Guerra e pace” o i “Fratelli
Karamazov” sono lunghi. Il respiro e la dimensione del racconto conferiscono
senso alla struttura in questo ritornare compiuto della storia. Non trovo
poi del tutto pertinente il fatto che Dylan racconti soltanto la storia del
Titanic a cento anni di distanza chiedendo che scriva o descriva qualcosa
di più attuale, avrebbe potuto ambientarla nel crollo delle due torri cambiando
soltanto qualche dettaglio, ma il senso quello delle disgrazia, del destino che
restringendosi attorno a una umanità che viene contemporaneamente sommersa
è simile. Le due torri crollano portandosi dietro una miriade
di storie scritte forse nel libro dell’Apocalisse e in fondo non sembra
molto diversa dalla conclusione di Tempest in cui quando la Morte ebbe
mietuto le sue vittime, milleseicento avevano raggiunto l’eterno riposo, i
buoni, i cattivi, i ricchi, i poveri, i più incantevoli e i migliori. Che
Attesero all’approdo e provarono a capire, ma non c’è alcuna comprensione del
giudizio della mano di Dio.
Per
questo dire che in Tempest Dylan parli del Titanic mi sembra francamente
riduttivo. Il primo indizio (si sa per chi ascolta Dylan gli indizi sono
importanti) è che la tempesta non ha alcuna attinenza con l’affondamento del
Titanic in quanto avvenne a causa dello scontro con un Iceberb in una notte di
mare relativamente tranquillo. La Tempesta va letta con un
significato a mio parere più interiore e Dylan stesso ha sottolineato come il
titolo abbia una sua importanza, quando ha dichiarato affrancandosi da
Shakespeare che non è “La tempesta” ma “Tempesta”. Può anche sembrare un
dettaglio ma evidenzia comunque a mio parere di come voglia parlare di
una cosa diversa.
Dylan in
questo modo attualizza la storia togliendola dal contesto e andando a
analizzare, tramite una serie di abbozzi descrittivi, il modo di
reagire dell’animo umano, davanti proprio alla possibilità di incomprensione
del destino.
Carrera
non a caso la definisce come la
più perfetta canzone di Dylan. Ci dice ad esempio di ascoltare le parole “saw
the changing of his world” - “vide come mutava il suo mondo” - il modo in cui
Dylan cambia la melodia; di pochissimo, ma dando tutt’altro respiro al verso.
In realtà
Carrera oltre a questo evidenzia, a mio avviso in modo molto pertinente la
figura della vedetta. La vedetta ha qui un sapore quasi evangelico, quello
stare in guardia che ritorna portato fuori quasi dallo scrutare l’orizzonte di
All along the watchtower e che sembra aprire una breccia su quel libro
della Rivelazione (o Apocalisse) che tradotto così mi sembra però molto più
evocativo di qualcosa che viene rivelato o disvelato al mondo sul senso del
destino. Eppure questa vedetta, il cui compito sembra quello di scrutare,
di osservare, è presente con l’ostinazione del sogno. Non è la realtà
materiale di cui si accorge ma è la sua premonizione, basta provare ad
accostare le 4 strofe che si ripetono con una ciclicità non
definita delle 45 strofe che compongono la canzone (la 6°, 17°, 38° e
45°).
La
vedetta era stesa a sognare,
mentre
si danzava vorticosamente nel salone da ballo,
sognò
che il Titanic stesse affondando
giù
negli inferi.
La
vedetta era là stesa a sognare,
a
un’inclinazione di quarantacinque gradi,
sognò
che il Titanic stesse affondando
cadendo
in ginocchio.
La
vedetta era stesa a sognare,
il
danno era stato fatto,
sognò
che il Titanic stesse affondando
e
cercò di dirlo a qualcuno.
La
vedetta era stesa a sognare
tutto
ciò che potrebbe mai essere,
sognò
che il Titanic stesse affondando
nel
profondo mare blu.
La cosa
più interessante è che, per la vedetta, la realtà è il sogno che si realizza,
ed è questa la magia che colpisce Dylan mutuandola dalla Carter Family, non a
caso ripresa da Carrera: Chiunque pensi che Dylan stia semplicemente
riscrivendo (o magari plagiando) vecchie canzoni dovrebbe fermarsi un momento a
considerare come le sta riscrivendo (o come lui stesso forse direbbe,
“trasfigurando”). Pare che sia stato Virgilio (anche lui accusato di plagio) a
dire: “È più facile rubare la clava dalle mani di Ercole che un verso a Omero”.
Nelle
varie descrizioni che si possono scoprire e che segnano questa parte del
destino che accomuna le persone trovo quella di Leo in cui l’uomo gira con il
suo quaderno di ritratti (ricordate Highlands?) che presenta una certa
affinità con la descrizione di Simple twist of fate “Cupido lo colpì
al petto, e vi aprì una ferita con uno schiocco, così cadde tra le
braccia della donna a lui più vicina. Sentì un fragoroso frastuono, qualcosa
suonò male, il suo spirito interiore gli diceva che non sarebbe potuto restare
lì per molto. (Tempest)
e lei guardò verso
di lui e lui sentì un brivido percorrergli le ossa. Fu allora che si sentì
solo e desiderò di aver proseguito dritto ed aspettò un semplice scherzo
del destino (Simple twist of
fate). Leo illustra anche il senso della
storia e se vogliamo il revisionismo artistico. A parte la rima con Cleo che
è così assurda da apparire geniale,
Dylan inserisce nel Titanic il nome dell’attore Di Caprio, inserendo con questo
deliberatamente una sottolineatura che la storia ha portato con sè. Il mondo
attuale nel pensare al Titanic è certamente influenzato dalla visione del film
di Cameron che ne ha offerto una propria rilettura. Il nostro pensiero odierno,
il nostro riguardare alla tragedia si inserisce certamente in questa dinamica e
Dylan ha volutamente inserito l’attore piuttosto che il personaggio che egli
stesso personifica nel film perché altrimenti sarebbe soltanto una
rivisitazione storica, mentre il nostro guardare in senso artistico alla
tragedia è mutato. Tempest è il nostro
sguardo di oggi al Titanic, ma qui la tragedia è forse più umana, vi è forse il
guardare alla morte con le preoccupazioni della vita, in un distacco quasi
paradossale, pretendendo che lo show continui, così è per l’orchestra che
continua a suonare (cosa che accadde realmente), ma anche per i giocatori di
carte che continuano a giocare o per le signore che saltano nell’acqua assieme
alle figlie volendo sottolineare ancora il tema della necessità dell’eleganza e
del rispetto delle regole, oppure il momento di vita per l’esistenza annoiata del
ricco uomo d’affari.
La
canzone di riferimento di Tempest è comunque per me Desolation row , gli
abitanti del Titanic sembrano in qualche modo legati ai personaggi di
Desolation Row, rivedo Ofelia nelle madri e figlie che saltano nelle
acque gelide, rivedo al descrizione del Titanic che salpa all'alba e
tutti stanno gridando "Da che parte stai?" e rivedo lo
scherno verso i poeti visionari nella vedetta in Ezra Pound e T. S. Eliot
che combattono nella torre di comando, mentre cantanti di calipso li
deridono ( i giocatori di carte e l’orchestra che continuano la loro
attività in Tempest ) mentre i pescatori porgono fiori tra le
finestre del mare, dove amabili sirene nuotano e nessuno mai pensa
troppo al vicolo della desolazione. In questo pensiero finale proprio nel
non pensare proprio al destino, all’espiazione possiamo quasi ritrovare una
chiave di lettura di Desolation Row che all’epoca era ermeticamente più chiusa
nel suo significato. In questo scendere nel luogo del destino vi è il cammino che
conduce alla realtà dipinta dal sogno. Anche in Tempest vi è l’immagine dei
fiori che, in questo caso, perdono i propri petali in questo progressivo
distacco dalla vita in una delicata visione dell’evolversi della sofferenza
umana.
Commenti
vari
La
Carter Family era conosciuta, ai miei tempi, e la citazione di quella loro
canzone è chiaramente un omaggio. Ma Bob si è chiaramente lasciato prendere la
mano. Ha dilatato all'infinito il racconto, usando la descrittività della folk
ballad come una cinepresa che, in un unico piano-sequenza, mostra tutto quello
che si può mostrare. Sale, scende, apre le porte e spia dagli oblò. E trova
tutti, immancabilmente, anche chi non c'era, ma ci deve essere per forza
(Leonardo di Caprio). Tutto accade adesso, contemporaneamente. Non ci sono
cause, non ci sono spiegazioni, è la volontà di Dio. E' simile a Desolation
Row, ma forse è molto più affollata, più simile al Giudizio Universale, ma non
serve a niente leggere il Libro delle Rivelazioni. Si badi bene al titolo: non
è più un naufragio (come in effetti è stato), cioè un fatto umano e come tale
spiegabile e investigabile, è una tempesta, ovvero un fatto naturale, inscritto
nell'ordine dell'universo, e per questo descrivibile, certo, ma le cui cause
stanno del tutto al di fuori dell'intelligibilità umana. (Bruno Sansonetti)
Tempesta
testo
di Bob Dylan
trad.
it. Francesco Alunni
La pallida luna si levò col
suo splendore
su una città dell’ovest,
lei raccontò la triste triste
storia
della grande nave che si
inabissò.
Era il quattordici di aprile
e solcava le onde
navigando incontro al domani
verso una preannunciata età
dell’oro.
La notte era luminosa del
chiarore stellare,
i mari nitidi e limpidi,
in viaggio tra le ombre
l’ora promessa era vicina.
Le luci si mantenevano stabili
mentre scivolava sulla spuma,
tutti i signori e le signore
diretti alla loro eterna
dimora.
I lampadari ondeggiavano
dalla balaustrata in alto,
l’orchestra suonava
canzoni d’amore svanito.
La vedetta era stesa a
sognare,
mentre si danzava
vorticosamente nel salone da ballo,
sognò che il Titanic stesse
affondando
giù negli inferi.
Leo prese il suo blocco da
disegno,
aveva spesso quest’inclinazione,
chiuse gli occhi e dipinse
la scena della sua mente.
Cupido lo colpì al petto
e vi aprì una
ferita con uno schiocco,
così cadde tra le braccia
della donna a lui più vicina.
Sentì un fragoroso frastuono,
qualcosa suonò male,
il suo spirito interiore gli
diceva
che non sarebbe potuto restare
lì per molto.
Barcollò fino al cassero,
ora non era tempo di dormire,
l’acqua sul cassero
già era alta più di un metro.
La ciminiera pendeva di lato,
cominciò uno scalpiccio di
passi pesanti,
Leo entrò nel turbine,
il cielo si squarciava
tutt’intorno.
La nave colava a picco,
l’universo si era spalancato,
lassù ci fu un appello,
gli angeli si voltarono
dall’altra parte.
Le luci nel corridoio
tremolavano fioche e incerte,
corpi morti già galleggiavano
nel doppio fondo della
chiglia.
Quindi i motori esplosero,
le eliche non riuscirono ad
avviarsi,
le caldaie divennero
sovraccariche,
la prua della nave si spezzò.
Passeggeri volavano
all’indietro, in avanti,
lontani e veloci:
farfugliarono, annasparono e
caddero,
ognuno più esausto del
precedente.
Il velo si squarciò di netto,
tra l’ora di mezzanotte e
l’una,
nessun cambiamento, nessun
improvviso miracolo,
avrebbe potuto annullare
quanto successo.
La vedetta era là stesa a
sognare,
a un’inclinazione di
quarantacinque gradi,
sognò che il Titanic stesse
affondando
cadendo in ginocchio.
Wellington stava dormendo,
il suo letto cominciò a
scivolare,
pulsava il suo intrepido
cuore,
spinse i tavoli di lato.
La cristalleria in frantumi
era sparsa da tutte le parti,
lui si allacciò entrambe le
pistole,
quanto avrebbe potuto
resistere?
I suoi uomini e compagni
non si vedevano da nessuna
parte,
là in silenzio attese
che tempo e spazio
intervenissero.
Il corridoio era stretto,
c’era nerume nell’aria,
vide ogni tipo di dolore,
udì voci dappertutto.
I campanelli d’allarme
risuonavano
per trattenere la marea che
montava,
amici e innamorati si
aggrappavano
l’uno all’altro, fianco a
fianco.
Le madri e le loro figlie
mentre discendevano le scale
saltarono nelle acque gelide,
amore e pietà innalzarono le
loro preghiere.
Il ricco, il signor Astor,
baciò l’amata moglie,
non aveva modo di supporre
che sarebbe stato il suo
ultimo viaggio.
Calvin, Blake e Wilson
giocarono nell’oscurità,
nessuno di loro sarebbe
sopravvissuto
per raccontare la
storia dello sbarco.
Fratello insorse contro
fratello
in ogni circostanza,
si scontrarono e si
massacrarono l’un l’altro
in una danza mortifera.
Calarono le lance di
salvataggio
dal relitto che colava a
picco,
c’erano traditori e
opportunisti,
schiene spezzate e colli
spezzati.
Il vescovo lasciò la sua
cabina
per soccorrere i bisognosi,
rivolse gli occhi al cielo,
disse: «spetta a Te sostentare
i poveri».
Davey, il proprietario del bordello,
uscì e congedò le sue ragazze,
vide che l’acqua saliva,
vide come mutava il suo mondo.
Jim Dandy sorrise,
non aveva mai imparato a
nuotare,
vide il bambinello storpio
e lasciò a lui il suo posto.
Vide il chiarore stellare
splendere
come un torrente dall’Oriente,
la morte stava infuriando
ma ora in pace era il suo
cuore.
Chiusero con serrette i
boccaporti
ma i boccaporti non potevano
reggere,
affogarono sullo scalone
d’ottone e oro lustro.
Leo disse a Cleo:
«mi sembra di impazzire»,
ma aveva già perso il senno,
qualunque senno avesse mai
avuto.
Cercò di bloccare un passaggio
per salvare quelli in
pericolo,
il sangue da una ferita aperta
gli fluiva copioso lungo il
braccio.
I petali caddero dai fiori,
tutti fino all’ultimo,
nelle lunghe ore tremende
la maledizione dello stregone
continuò il suo effetto.
Il maître versava del brandy,
affondava lentamente,
rimase fino alla fine,
fu l’ultimo ad andarsene.
C’erano molti e molti altri
ignoti da qui all’eternità,
mai avevano solcato l’oceano
o lasciato in precedenza le
loro case.
La vedetta era stesa a
sognare,
il danno era stato fatto,
sognò che il Titanic stesse
affondando
e cercò di dirlo a qualcuno.
Il capitano, respirando a
malapena,
era inginocchiato al timone,
sopra e sotto di lui
cinquantamila tonnellate
d’acciaio.
Esaminò attentamente la
bussola,
fissò lo sguardo sul
quadrante:
l’ago puntava in basso,
capì d’aver perso la corsa.
Nella scarsa illuminazione
ricordò gli anni passati,
lesse l’Apocalisse
e riempì di lacrime il suo
calice.
Quando la Morte ebbe mietuto
le sue vittime
milleseicento avevano
raggiunto l’eterno riposo,
i buoni, i cattivi, i ricchi,
i poveri,
i più incantevoli e i
migliori.
Attesero all’approdo
e provarono a capire,
ma non c’è alcuna comprensione
del giudizio della mano di
Dio.
La notizia giunse via
telegrafo
e colpì con forza micidiale,
l’amore aveva perso tutto il
suo ardore,
ogni cosa aveva seguito il suo
corso.
La vedetta era stesa a sognare
tutto ciò che potrebbe mai
essere,
sognò che il Titanic stesse
affondando
nel profondo mare blu.