domenica 28 ottobre 2012

Tempest


Prima ancora di leggere il testo, primo ancora di definirne il mio pensiero leggevo commenti sulla canzone Tempest. Per molti Tempest è una canzone troppo lunga e ripetitiva. Il mio commento è sempre stato diverso. Se Tempest ha un difetto è quella di essere forse troppo corta,  lo stesso dicasi per Tin Angel ad esempio. Qualcuno sorriderà ma provi ad immaginare Tin Angel con un intermezzo di armonica nel penultimo verso e uno nel finale come avveniva nella struttura delle canzoni folk che componeva un tempo. Sfido qualcuno a dirmi che la canzone non sarebbe stata migliore. Altre invece sono lunghe a sufficienza.
In questo caso il commento di Marcus mi sembra il più appropriato “Giunti al sesto o settimo minuto (ne dura quattordici) si può pensare di uscire a prendere una boccata d’aria o di farsi un caffè, tanto al ritorno la canzone non sarà ancora finita, ma se dopo la metà si comincia ad ascoltarla attentamente ci si accorge che qualcosa è successo, che quello che sembrava il racconto di un naufragio avvenuto cent’anni fa in realtà è una battaglia senza quartiere che si sta svolgendo adesso, qui ed ora, per il possesso delle anime di ogni personaggio menzionato nella canzone, e che il culmine della narrazione, il suo momento più intenso, è raggiunto alla terza comparsa della sentinella dormiente, il “watchman” che sta sognando che il Titanic sta affondando, e nel sogno vorrebbe dirlo a qualcuno (“He dreamed the Titanic was sinking, and he tried to tell someone”).
In realtà dire che Tempest è troppo lunga è come dire che “Guerra e pace” o i “Fratelli Karamazov” sono lunghi. Il respiro e la dimensione del racconto conferiscono senso alla struttura in questo  ritornare compiuto della storia. Non trovo poi del tutto pertinente il fatto che Dylan racconti soltanto la storia del Titanic a cento anni di distanza chiedendo che scriva  o descriva qualcosa di più attuale, avrebbe potuto ambientarla nel crollo delle due torri cambiando soltanto qualche dettaglio, ma il senso quello delle disgrazia, del destino che restringendosi attorno a una umanità che viene contemporaneamente sommersa è  simile.   Le due torri crollano portandosi dietro una miriade di storie scritte forse nel libro dell’Apocalisse e in fondo  non sembra molto diversa dalla conclusione di Tempest in cui quando la Morte ebbe mietuto le sue vittime, milleseicento avevano raggiunto l’eterno riposo, i buoni, i cattivi, i ricchi, i poveri, i più incantevoli e i migliori. Che Attesero all’approdo e provarono a capire, ma non c’è alcuna comprensione del giudizio della mano di Dio.
Per questo dire che in Tempest Dylan parli del Titanic mi sembra francamente riduttivo. Il primo indizio (si sa per chi ascolta Dylan gli indizi sono importanti) è che la tempesta non ha alcuna attinenza con l’affondamento del Titanic in quanto avvenne a causa dello scontro con un Iceberb in una notte di mare relativamente tranquillo.  La Tempesta va letta  con un significato a mio parere più interiore e Dylan stesso ha sottolineato come il titolo abbia una sua importanza, quando ha dichiarato affrancandosi da Shakespeare che non è “La tempesta” ma “Tempesta”. Può anche sembrare un dettaglio ma  evidenzia comunque a mio parere di come voglia parlare di una cosa diversa.
Dylan in questo modo attualizza la storia togliendola dal contesto e andando a analizzare, tramite una serie di abbozzi descrittivi,   il modo di reagire dell’animo umano, davanti proprio alla possibilità di incomprensione del destino.
Carrera non a caso la definisce come la più perfetta canzone di Dylan. Ci dice ad esempio di ascoltare le parole “saw the changing of his world” - “vide come mutava il suo mondo” - il modo in cui Dylan cambia la melodia; di pochissimo, ma dando tutt’altro respiro al verso.
In realtà Carrera oltre a questo evidenzia, a mio avviso in modo molto pertinente la figura della vedetta. La vedetta ha qui un sapore quasi evangelico, quello stare in guardia che ritorna portato fuori quasi dallo scrutare l’orizzonte di All along the watchtower  e che sembra aprire una breccia su quel libro della Rivelazione (o Apocalisse) che tradotto così mi sembra però molto più evocativo di qualcosa che viene rivelato o disvelato al mondo sul senso del destino.  Eppure questa vedetta, il cui compito sembra quello di scrutare, di osservare,  è presente con l’ostinazione del sogno. Non è la realtà materiale di cui si accorge ma è la sua premonizione, basta provare ad accostare le 4 strofe  che si ripetono con una ciclicità  non definita delle 45 strofe che compongono la canzone  (la 6°, 17°, 38° e 45°).

La vedetta era stesa a sognare,
mentre si danzava vorticosamente nel salone da ballo,
sognò che il Titanic stesse affondando
giù negli inferi.

La vedetta era là stesa a sognare,
a un’inclinazione di quarantacinque gradi,
sognò che il Titanic stesse affondando
cadendo in ginocchio.

La vedetta era stesa a sognare,
il danno era stato fatto,
sognò che il Titanic stesse affondando
e cercò di dirlo a qualcuno.

La vedetta era stesa a sognare
tutto ciò che potrebbe mai essere,
sognò che il Titanic stesse affondando
nel profondo mare blu.
La cosa più interessante è che, per la vedetta, la realtà è il sogno che si realizza,  ed è questa la magia che colpisce Dylan mutuandola dalla Carter Family, non a caso ripresa da Carrera: Chiunque pensi che Dylan stia semplicemente riscrivendo (o magari plagiando) vecchie canzoni dovrebbe fermarsi un momento a considerare come le sta riscrivendo (o come lui stesso forse direbbe, “trasfigurando”). Pare che sia stato Virgilio (anche lui accusato di plagio) a dire: “È più facile rubare la clava dalle mani di Ercole che un verso a Omero”.
Nelle varie descrizioni che si possono scoprire e che segnano questa parte del destino che accomuna le persone trovo quella di Leo in cui l’uomo gira con il suo quaderno di ritratti (ricordate Highlands?)  che presenta una certa affinità con la descrizione di Simple twist of fate  “Cupido lo colpì al petto, e vi aprì una ferita con uno schiocco, così cadde tra le braccia della donna a lui più vicina. Sentì un fragoroso frastuono, qualcosa suonò male, il suo spirito interiore gli diceva che non sarebbe potuto restare lì per molto. (Tempest) e   lei guardò verso di lui e lui sentì un brivido percorrergli le ossa. Fu allora che si sentì solo e desiderò di aver proseguito dritto ed aspettò un semplice scherzo del destino (Simple twist of fate). Leo  illustra anche il senso della storia e se vogliamo il revisionismo artistico. A parte la rima con Cleo che è  così assurda da apparire geniale, Dylan inserisce nel Titanic il nome dell’attore Di Caprio, inserendo con questo deliberatamente una sottolineatura che la storia ha portato con sè. Il mondo attuale nel pensare al Titanic è certamente influenzato dalla visione del film di Cameron che ne ha offerto una propria rilettura. Il nostro pensiero odierno, il nostro riguardare alla tragedia si inserisce certamente in questa dinamica e Dylan ha volutamente inserito l’attore piuttosto che il personaggio che egli stesso personifica nel film perché altrimenti sarebbe soltanto una rivisitazione storica, mentre il nostro guardare in senso artistico alla tragedia è mutato.  Tempest è il nostro sguardo di oggi al Titanic, ma qui la tragedia è forse più umana, vi è forse il guardare alla morte con le preoccupazioni della vita, in un distacco quasi paradossale, pretendendo che lo show continui, così è per l’orchestra che continua a suonare (cosa che accadde realmente), ma anche per i giocatori di carte che continuano a giocare o per le signore che saltano nell’acqua assieme alle figlie volendo sottolineare ancora il tema della necessità dell’eleganza e del rispetto delle regole, oppure il momento di vita per l’esistenza annoiata del ricco uomo d’affari.
La canzone di riferimento di Tempest è comunque per me Desolation row , gli abitanti del Titanic sembrano in qualche modo legati ai personaggi di Desolation Row, rivedo  Ofelia nelle madri e figlie che saltano nelle acque gelide, rivedo al descrizione del Titanic che salpa all'alba  e tutti stanno gridando  "Da che parte stai?"  e rivedo lo scherno verso i poeti visionari nella vedetta in Ezra Pound e T. S. Eliot  che combattono nella torre di comando,  mentre cantanti di calipso li deridono  ( i giocatori di carte e l’orchestra che continuano la loro attività in Tempest )  mentre i  pescatori porgono fiori tra le finestre del mare, dove amabili sirene nuotano e nessuno mai pensa troppo al vicolo della desolazione. In questo pensiero finale proprio nel non pensare proprio al destino, all’espiazione possiamo quasi ritrovare una chiave di lettura di Desolation Row che all’epoca era ermeticamente più chiusa nel suo significato. In questo scendere nel luogo del destino vi è il cammino che conduce alla realtà dipinta dal sogno. Anche in Tempest vi è l’immagine dei fiori che, in questo caso, perdono i propri petali in questo progressivo distacco dalla vita in una delicata visione dell’evolversi della sofferenza umana. 
Commenti vari
La Carter Family era conosciuta, ai miei tempi, e la citazione di quella loro canzone è chiaramente un omaggio. Ma Bob si è chiaramente lasciato prendere la mano. Ha dilatato all'infinito il racconto, usando la descrittività della folk ballad come una cinepresa che, in un unico piano-sequenza, mostra tutto quello che si può mostrare. Sale, scende, apre le porte e spia dagli oblò. E trova tutti, immancabilmente, anche chi non c'era, ma ci deve essere per forza (Leonardo di Caprio). Tutto accade adesso, contemporaneamente. Non ci sono cause, non ci sono spiegazioni, è la volontà di Dio. E' simile a Desolation Row, ma forse è molto più affollata, più simile al Giudizio Universale, ma non serve a niente leggere il Libro delle Rivelazioni. Si badi bene al titolo: non è più un naufragio (come in effetti è stato), cioè un fatto umano e come tale spiegabile e investigabile, è una tempesta, ovvero un fatto naturale, inscritto nell'ordine dell'universo, e per questo descrivibile, certo, ma le cui cause stanno del tutto al di fuori dell'intelligibilità umana. (Bruno Sansonetti)
 


Tempesta
testo di Bob Dylan
trad. it. Francesco Alunni

La pallida luna si levò col suo splendore
su una città dell’ovest,
lei raccontò la triste triste storia
della grande nave che si inabissò.
Era il quattordici di aprile
e solcava le onde
navigando incontro al domani
verso una preannunciata età dell’oro.
La notte era luminosa del chiarore stellare,
i mari nitidi e limpidi,
in viaggio tra le ombre
l’ora promessa era vicina.
Le luci si mantenevano stabili
mentre scivolava sulla spuma,
tutti i signori e le signore
diretti alla loro eterna dimora.
I lampadari ondeggiavano
dalla balaustrata in alto,
l’orchestra suonava
canzoni d’amore svanito.
La vedetta era stesa a sognare,
mentre si danzava vorticosamente nel salone da ballo,
sognò che il Titanic stesse affondando
giù negli inferi.
Leo prese il suo blocco da disegno,
aveva spesso quest’inclinazione,
chiuse gli occhi e dipinse
la scena della sua mente.
Cupido lo colpì al petto
e vi aprì una ferita con uno schiocco,
così cadde tra le braccia
della donna a lui più vicina.
Sentì un fragoroso frastuono,
qualcosa suonò male,
il suo spirito interiore gli diceva
che non sarebbe potuto restare lì per molto.
Barcollò fino al cassero,
ora non era tempo di dormire,
l’acqua sul cassero
già era alta più di un metro.
La ciminiera pendeva di lato,
cominciò uno scalpiccio di passi pesanti,
Leo entrò nel turbine,
il cielo si squarciava tutt’intorno.
La nave colava a picco,
l’universo si era spalancato,
lassù ci fu un appello,
gli angeli si voltarono dall’altra parte.
Le luci nel corridoio
tremolavano fioche e incerte,
corpi morti già galleggiavano
nel doppio fondo della chiglia.
Quindi i motori esplosero,
le eliche non riuscirono ad avviarsi,
le caldaie divennero sovraccariche,
la prua della nave si spezzò.
Passeggeri volavano
all’indietro, in avanti, lontani e veloci:
farfugliarono, annasparono e caddero,
ognuno più esausto del precedente.
Il velo si squarciò di netto,
tra l’ora di mezzanotte e l’una,
nessun cambiamento, nessun improvviso miracolo,
avrebbe potuto annullare quanto successo.
La vedetta era là stesa a sognare,
a un’inclinazione di quarantacinque gradi,
sognò che il Titanic stesse affondando
cadendo in ginocchio.
Wellington stava dormendo,
il suo letto cominciò a scivolare,
pulsava il suo intrepido cuore,
spinse i tavoli di lato.
La cristalleria in frantumi
era sparsa da tutte le parti,
lui si allacciò entrambe le pistole,
quanto avrebbe potuto resistere?
I suoi uomini e compagni
non si vedevano da nessuna parte,
là in silenzio attese
che tempo e spazio intervenissero.
Il corridoio era stretto,
c’era nerume nell’aria,
vide ogni tipo di dolore,
udì voci dappertutto.
I campanelli d’allarme risuonavano
per trattenere la marea che montava,
amici e innamorati si aggrappavano
l’uno all’altro, fianco a fianco.
Le madri e le loro figlie
mentre discendevano le scale
saltarono nelle acque gelide,
amore e pietà innalzarono le loro preghiere.
Il ricco, il signor Astor,
baciò l’amata moglie,
non aveva modo di supporre
che sarebbe stato il suo ultimo viaggio.
Calvin, Blake e Wilson
giocarono nell’oscurità,
nessuno di loro sarebbe sopravvissuto
per raccontare la storia dello sbarco.
Fratello insorse contro fratello
in ogni circostanza,
si scontrarono e si massacrarono l’un l’altro
in una danza mortifera.
Calarono le lance di salvataggio
dal relitto che colava a picco,
c’erano traditori e opportunisti,
schiene spezzate e colli spezzati.
Il vescovo lasciò la sua cabina
per soccorrere i bisognosi,
rivolse gli occhi al cielo,
disse: «spetta a Te sostentare i poveri».
Davey, il proprietario del bordello,
uscì e congedò le sue ragazze,
vide che l’acqua saliva,
vide come mutava il suo mondo.
Jim Dandy sorrise,
non aveva mai imparato a nuotare,
vide il bambinello storpio
e lasciò a lui il suo posto.
Vide il chiarore stellare splendere
come un torrente dall’Oriente,
la morte stava infuriando
ma ora in pace era il suo cuore.
Chiusero con serrette i boccaporti
ma i boccaporti non potevano reggere,
affogarono sullo scalone
d’ottone e oro lustro.
Leo disse a Cleo:
«mi sembra di impazzire»,
ma aveva già perso il senno,
qualunque senno avesse mai avuto.
Cercò di bloccare un passaggio
per salvare quelli in pericolo,
il sangue da una ferita aperta
gli fluiva copioso lungo il braccio.
I petali caddero dai fiori,
tutti fino all’ultimo,
nelle lunghe ore tremende
la maledizione dello stregone continuò il suo effetto.
Il maître versava del brandy,
affondava lentamente,
rimase fino alla fine,
fu l’ultimo ad andarsene.
C’erano molti e molti altri
ignoti da qui all’eternità,
mai avevano solcato l’oceano
o lasciato in precedenza le loro case.
La vedetta era stesa a sognare,
il danno era stato fatto,
sognò che il Titanic stesse affondando
e cercò di dirlo a qualcuno.
Il capitano, respirando a malapena,
era inginocchiato al timone,
sopra e sotto di lui
cinquantamila tonnellate d’acciaio.
Esaminò attentamente la bussola,
fissò lo sguardo sul quadrante:
l’ago puntava in basso,
capì d’aver perso la corsa.
Nella scarsa illuminazione
ricordò gli anni passati,
lesse l’Apocalisse
e riempì di lacrime il suo calice.
Quando la Morte ebbe mietuto le sue vittime
milleseicento avevano raggiunto l’eterno riposo,
i buoni, i cattivi, i ricchi, i poveri,
i più incantevoli e i migliori.
Attesero all’approdo
e provarono a capire,
ma non c’è alcuna comprensione
del giudizio della mano di Dio.
La notizia giunse via telegrafo
e colpì con forza micidiale,
l’amore aveva perso tutto il suo ardore,
ogni cosa aveva seguito il suo corso.
La vedetta era stesa a sognare
tutto ciò che potrebbe mai essere,
sognò che il Titanic stesse affondando
nel profondo mare blu.